domenica 18 maggio 2014

"Madrid da morire": Capitolo 2




DUE


     La breve passeggiata da uomo libero sotto i portici di Piazza Castello mi diede sui nervi. Dal cielo color piombo cadevano gocce pesanti. Eccoti servito il fascino di Torino. La bellezza dei monumenti tirati a lucido non aveva nessun effetto su me. Barocco austero per una città che mi rifiutava in tutti i modi. Il lato positivo dell’umidità di novembre è che ti aiuta a pensare, ma non erano pensieri divertenti. Viola me l’avrebbe fatta pagare. Le avevo mancato di rispetto, era comprensibile che si sentisse ferita. Rischiavo di perderla? Non sapevo né cosa aspettarmi, né come mi sentissi. Era una prospettiva che mi lasciava insensibile. Cosa provavo per lei? Dopo più di un anno, non avevo una risposta.
     All’angolo di Via Garibaldi tornai a questioni più concrete. Il Cambio era un capitolo chiuso. Cosa poteva fare un sommelier squattrinato per non morire di fame con un curriculum impresentabile come il mio? Ma il vero problema erano gli ottomila euro. Se non avevo uno straccio di lavoro, Tinazzi poteva cambiare opinione su di me: da mucca da mungere a carne morta. Mi venne un brivido. E non era l’umidità.
     Bighellonando senza meta, finii davanti a una vetrina scura con schermi zeppi di cifre. Come un sonnambulo lessi le quote: Lasciatemi Stare vincente, dieci a uno. Seduto per terra, un barbone chiedeva l’elemosina. Molto trendy in epoca di crisi. La mia paura più grande si materializzò davanti a me. Potevo finire come lui? Cercai la sicurezza che non avevo tastando le banconote accartocciate in tasca. A lui avrebbero cambiato la vita? E a me? Prima di rendermene conto, entrai e puntai tutto sul cavallo. Lasciatemi Stare, vincente. Non li contai neanche.
     Mentre seguivo le minuscole sagome a quattro zampe sul televisore, pensavo alle donne. A Lei. Con Viola mancava qualcosa. Forse non era la donna giusta, o forse ero io l’uomo sbagliato. Per telefono non le avevo dato neanche un bacio, niente. È che non mi veniva più. Forse mai più. Beh, poco male. Mi restava sempre il ricordo di Michela.
     Tornai in strada con una birra che mi nuotava nello stomaco e le tasche vuote. Specializzato in perdenti e cause perse. Accelerai l’andatura, con la delusione che si mischiava alla frustrazione in un cocktail deprimente. Bravo Max. Avevo una gran voglia di crollare sul divano e scaldarmi le budella con due dita di Glenfiddich, contemplando le foto di Lei. Quella era una consolazione che non mi avrebbe negato nessuno.
     Quando arrivai al parcheggio dietro ai Giardini Reali ero fradicio di pioggia e sfatto come se avessi corso tre maratone. Ero confuso, sopraffatto dalle emozioni. Non ricordavo neanche dove avevo lasciato la Cinquecento.
     – Ciao Max. Sorpresa.
     Cristo. Era Tinazzi. Scappa, Max, corri via. Quello era ben piantato, novanta chili almeno, magari non mi sarebbe stato dietro.
     – Non ti far venire strane idee.
     Vidi il manganello. Ero fritto. Da dove avrebbe iniziato? La bocca no, ti prego non mi spaccare tutti i denti come quel bastardo a San Salvario. Non avrei sopportato le torture del dentista una seconda volta. Dai, ammazzami di botte. Facciamola finita.
     – Dov’è la grana?
     – Te l’ho detto, ti pagherò, ho un buon lavoro, dammi tempo.
     – Sono tre mesi che non scuci un euro. Adesso basta.
     Tinazzi alzò il manganello. Incombeva come il Caval ëd Brons di Piazza San Carlo, pronto a darti una zoccolata in faccia.
     – Aspetta! Prendi questo. È per te. Dammi ancora qualche giorno.
     – È una patacca?
     – No, Rolex autentico. – Sì, comprato da un ricettatore per 50 sacchi. – Dai, solo qualche giorno, ti prometto...
     – Questo lo prendo io – Tinazzi si infilò l’orologio. – Ora zitto e ascolta.
     Mi prese per il collo. Faceva un male del diavolo.
     – Non credere di fare il furbo con me, capito coglione?
     Poi arrivò. Non fui accontentato. O forse era la mia sorte, se così si può chiamare una puntonata di manganello nello stomaco. Restai piegato in due a raccogliere le mie budella, mentre Tinazzi portava i suoi novanta chili di cattiveria a spremere qualcun altro.
     Faticai a salire in macchina. Faticai a trovare parcheggio sotto casa. Faticai a salire i quattro piani fino alla mia mansarda. Il dolore fisico era la ciliegina per quella giornata spietata. Non ne potevo più di quella vita. Quando richiusi la porta alle mie spalle, credetti che le mazzate fossero finite. Mi sbagliavo.
     Sullo schermo del portatile lampeggiava una mail nuova. Le quattro righe di caratteri facevano impallidire ogni mio ridicolo problemino. Rilessi quella fredda sequenza di pixel incapace di accettarne il senso. Era un incubo. Una scheggia di dubbio destinata a lacerarmi l’anima.


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