lunedì 3 luglio 2017

Arriva "Parigi in nero", il mio nuovo thriller


Una tecnologia seducente e minacciosa. Un mondo allo sbando, drogato di emozioni artificiali. Cinque anime travagliate, in lotta per sopravvivere.
Quando Parigi diventa il fulcro di un piano di smisurata ambizione, chi di loro riuscirà a salvare la propria umanità? 
Un thriller avvincente e spietato, per smascherare l’inquietante futuro che ci aspetta.


Dopo le emozioni di "Madrid da morire", una nuova storia mozzafiato nella collana Brivido capitale (romanzi indipendenti). Leggi "Parigi in nero" nel formato che preferisci:
Se puoi, dillo in giro, questo è il romanzo perfetto per l'estate.  E quando avrai letto il libro, scrivi la tua recensione su Amazon, ci conto!

Curioso di leggere l'incipit del romanzo? Eccolo qui:

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                        And we made our love on wasteland
                        And through the barricades.
                                 [E abbiamo fatto l’amore in una terra desolata
                                 e attraverso le barricate.]

Spandau Ballet, Through The Barricades



                        Tutti gli animali sono uguali.
                        (Ma alcuni sono più uguali degli altri).

George Orwell, La fattoria degli animali


  
                        Ciò che siamo è il risultato dei nostri pensieri.
                        Noi diventiamo quello che pensiamo.

Buddha



1.

  
La folla è inferocita. Corre per Via dei Condotti travolgendo tutto come uno tsunami. Inonda Piazza di Spagna lasciando una scia di bancomat incendiati, tavolini rovesciati, turisti in fuga. Esplode un ruggito di trionfo.
Studenti universitari e giovinastri, caschi, megafoni e passamontagna, tutti indiavolati. Mancano gli striscioni, ma questa non è una manifestazione come le altre. Ci sono mazze, catene, spranghe, bombe molotov. Fanno sul serio.
– Rivoluzione, rivoluzione, arriva la liberazione!
All'angolo di Via dei Due Macelli, Giovanni si mantiene in disparte, il viso coperto da sciarpa e berretto. Con i suoi profondi occhi marroni, osserva.
Sale qualche gradino della scalinata di Trinità dei Monti e filma con un visore 3D iSee. Nota le telecamere piazzate ovunque, sulle facciate, ai semafori. Si risistema sciarpa e berretto, torna a concentrarsi sulla rivolta. Non riprende più, si limita a registrare nella mente, alla vecchia maniera.
Una ragazza si ferma, raccoglie un ciottolo e lo soppesa come arma. Incrociano lo sguardo. Il viso di Giovanni si apre in un sorriso, ma la sciarpa lo nasconde.
La ragazza riparte a razzo con il sampietrino in mano, pronta a colpire. Il fiume di gente la trascina nell'imbuto di Via del Babuino, verso l'obelisco di Piazza del Popolo. Sarà battaglia. Giovanni mette via il visore e si unisce alla corrente.
– Pane e lavoro, vogliamo pane e lavoro!
L'impulso della massa si arresta prima di conquistare la piazza. Giovanni dovrebbe andarsene ma non resiste alla curiosità. Mi sento come un alieno, euforico e spaventato a morte. È pericoloso ma necessario, non potrei essere in un posto più giusto.
Giovanni si arrampica su un bidone per il compost organico e si rimette a filmare. Non è l’unico, vede molti iCom e visori 3D iSee, pronti a caricare i video nella nube globale.
La folla si è arrestata davanti a un muro di agenti in divisa nera, con manganelli lunghi un metro ed enormi scudi antisommossa con lo stemma della mano robotica che regge il microchip. Il logo della TecnoCorp. Gli uomini in nero.
Parte il lancio di pietre e molotov verso gli agenti, Giovanni riconosce la ragazza che scaglia il suo sampietrino con rabbia. La TecnoCorp li fa sfogare, con sufficienza.
Quando le munizioni improvvisate finiscono, risuona un fischio in tre tempi. Parte la carica. I manganelli volano, sfracellano, devastano. È un massacro, metodico ed efficiente. Una mazzata prende in pieno volto la ragazza del sampietrino, che resta a terra.
Giovanni è scioccato. Come quella volta, un’altra manifestazione di protesta, un’altra donna colpita. Morirà anche lei? Ma non c’è tempo per i ricordi. La massa di gente fugge dalla carica della TecnoCorp, impatta contro il bidone del compost e lo rovescia.
Giovanni salta a terra in tempo, passa dallo shock alla paura. Sgomita tra i manifestanti, cerca di aprirsi un varco. Ora di filarsela. Alle sue spalle, il sibilo dei lacrimogeni scatena una corsa selvaggia. Giovanni viene spinto, strattonato. Inciampa e viene calpestato sulla testa, sulle mani, sul costato.
Resta steso a terra, tramortito e inerme. Anfibi di pelle nera sfrecciano a passo di corsa. Giovanni alza la testa, disorientato. È circondato. Mi sono mosso tardi, imbecille.
Gli uomini in nero della TecnoCorp ammanettano chi resta e manganellano chi scappa. Una coppia di agenti malmena un ragazzo, presto sarà il turno di Giovanni.
Mi prenderanno. Sono fottuto.



– Io mi rifiuto di marcire in questa stamberga.
– Disgraziata, lo sai che cosa c'è là fuori?
– Sempre meglio della puzza che c’è qui dentro.
– Cerca di ragionare, Kira. – Jordi si sforza di non alzare la voce. – Ringrazia di avere un tetto che ti protegge dal neomonsone e una porta che tiene lontane le bande. Non studi più, non hai un lavoro...
– Dove vuoi che lo trovi un lavoro, eh?
– Devi tutto a me e tua madre, con la tua faccia da straniera e la testa calda che ti ritrovi, da sola faresti la fame. Sai che ce l’hanno tutti con i cinesi.
– Lei non è mia madre, e tu non sei mio padre.
– Kira, ti prego – La voce di María è tagliata dai singhiozzi – non ricominciare.
– Non sei mia madre, lo vuoi capire? Avete guadagnato abbastanza soldi prendendomi, ora cosa pensate di fare, vendermi?
– Per favore, cariño.
– Smettila di frignare, María. Sarei stata meglio se fossi rimasta nello Yunnan. Maledetto il giorno che vi ho incontrati.
– Non c'è modo di ragionare con te, sei tutta matta. – Jordi la guarda in cagnesco, la rabbia che ribolle. – Ficcatelo bene in testa, Kira: finché sei minorenne, finché vivi con noi, farai quello che dico io. È chiaro?
– E tu ficcati bene in testa che non siete i miei genitori, e non lo sarete mai. Non avete neppure scelto il mio nome.
Kira sbatte la porta e si tuffa sul suo letto. Alle sue spalle Jordi e María riprendono a farfugliare di euro e scadenze, ce la facciamo, ci ospita tua sorella, ho un aggancio per un lavoro. Poi sulla casa cala un silenzio disperato.
Il tanfo è insopportabile, spazzatura, muffa, feci, una miscela letale. Kira si rigira tra le lenzuola, scomoda in ogni posizione perché scomoda dentro. In quel tugurio non si darà mai pace.
Mette la faccia sotto il cuscino ma è inutile. Sente l’aria oleosa e fetida che le penetra nella pelle. I suoi demoni personali la tormentano. Le manca il coraggio, ecco la verità.
Nel silenzio della notte volano voci concitate, grida, insulti. Vengono dalla stanza che María si ostina a chiamare soggiorno, Kira capta frammenti di frasi, è impaurita. Ma è una notte troppo calda e umida per novembre. Kira ne ha avuto abbastanza.
Salta su, spalanca la porta e resta interdetta. Le parole di rabbia le vanno di traverso. Quelli che lei non chiama mamma e papà hanno compagnia: un anziano tarchiato con una corta barba bianca. Kira lo conosce bene. Ha la faccia da assassino.
No voy a esperar más. – Il barbuto è infuriato. – Domani, non faccio proroghe per nessuno.
Por favor, señor Munteanu – Jordi è intimidito – ci basterebbe soltanto un po' di...
– Silenzio! Conoscete le regole. Conoscete le conseguenze. Mi pagherete domani.
L'uomo con la barba fissa Kira, percorre la sua pelle di porcellana con uno sguardo lascivo, poi esce scortato da due energumeni tatuati.
– Torna in camera tua, Kira. Adesso.
– Guarda Jordi che tanto ho sentito tutto.
– In camera!
– Hai intenzione di alzarmi le mani come su María? O hai paura di me? Tanto lo so, ci sbatteranno fuori.
– Cosa vuoi saperne tu, mocciosa?
– Non ci perdiamo niente, sono solo lamiere e cartongesso, che se la tengano questa stamberga.
Di colpo la assale la puzza, quella miscela di spazzatura, muffa e feci. Ora basta. Va in camera, ficca quattro cose in una sacca. Prima di uscire si guarda allo specchio. Una ragazza con la faccia da cinese, come ha detto Jordi. Nel riflesso i suoi occhi da gatto sembrano irrequieti e ansiosi.
Quando si affaccia in soggiorno Kira trova María e Jordi stravaccati sul fatiscente sofà con l’iCom in mano, il visore 3D iSee sugli occhi e l’anello metallico dello stimolatore iEmo ben calzato sulla fronte. Sono altrove, in un mondo virtuale che è il surrogato del paradiso per i morti di fame come loro.
– Sapete cosa vi dico? – Kira fila via attraverso il soggiorno. – Godetevelo voi questo buco di culo di posto. Adiós.
– Tanto tornerai – farfuglia Jordi – tornerai anche questa volta.
– Non ci contate.
E prima che le persone che lei non chiama mamma e papà possano reagire, Kira se n'è andata.



L’orda di fans è in delirio. Un coro di migliaia di voci che intonano "Like a Virgin" all'unisono. Eva ha la pelle d'oca. Sulla parte strumentale si prende un respiro, si spreme da quasi due ore. Arriva il climax, l'orgasmo dei fedelissimi, che aspettano da mesi. Eva percepisce le vibrazioni dell'energia, è lei il catalizzatore.
Il palco è tutto per Eva. Ma invece di goderselo, pensa a Catalina. Se solo potesse sentirmi.
Sente il riff di basso e tastiera che scandisce l'ultima battuta, si muove sinuosa, a ritmo. La folla ammira una giovane Madonna con il famoso vestito con i pompon sul seno. Con un movimento d'anca provato per mesi Eva fa roteare i pompon e i fans esplodo in un ruggito di piacere.
Sistema il visore 3D iSee che le copre gli occhi, è pronta per il gran finale. Canta alla perfezione, dando tutto. Anche senza effetti digitali l'esecuzione è perfetta, acuta e squillante quanto basta, con i sospiri nei punti giusti.
Like a Virgin. Come l'originale.
Quando la musica finisce, si inchina senza fiato fino a toccare terra con i capelli. Risponde un’apoteosi di applausi alla giovane Madonna. Eva li vede, il suo visore 3D le rimanda ogni decibel. Assapora il suo momento di gloria, poi si allontana dal centro del palco, esce di scena, si sfila il visore.
Tutto svanisce.
Eva contempla attonita una sala in cemento grezzo. Il pavimento è di un blu notte penetrante, pieno di linee e punti gialli fosforescenti, così come la tuta grigia che la veste come un guanto dalla testa ai piedi.
La realtà è dura da mandar giù, è la trentasettesima serata del Madonna OloTour mondiale ma lo shock è sempre come la prima volta. Potrei non essere qui, se solo accettassi il suo aiuto. Ma non voglio niente da Chris, che vada in malora.
Nel camerino Eva non perde tempo a togliersi il trucco e il costume di scena che non indossa. La tuta a sensori viene via con un paio di zip di cerniere. Si concede l'unico lusso di due minuti di doccia e trenta secondi di asciugatura automatica con il phon integrale incorporato nella cabina.
Mentre l’aria le vortica intorno, Eva chiude gli occhi e si immagina ancora sul palco, osannata come la vera Madonna. Quando li riapre, nell'enorme specchio vede il riflesso di un viso provato per lo sforzo. Anche con la crema antirughe, è una battaglia persa. Già a ventisei anni la vita sregolata le si legge in faccia.
In meno di cinque minuti Eva è fuori dal backstage, con un minuscolo vestitino addosso, mezzo litro di bibita isotonica nello stomaco e una barretta energetica FastNRG sotto i denti.
Passa tra i fans che, invece di ammirare lei, ammirano la giovane Madonna nel replay sul maxischermo. Sembra vera, l'inganno è perfetto. Invece la vera Madonna se ne sta rintanata in una clinica nelle Alpi svizzere, cercando di non tirare le cuoia.
Molti spettatori indossano l’immancabile anello di metallo bianco intorno alla fronte. Chissà che cosa si prova a vedere l’oloconcerto con lo stimolatore iEmo attivo. Una valanga sensoriale orgiastica, con le proprie emozioni sincronizzate dal software con quelle del resto della folla, un immenso baccanale.
Mi manca l’aria, devo uscire, subito. Eva sbuca fuori dal Madison Square Garden nel calore della notte. È sola. Suoni, odori e luci la bombardano: auto e clacson, insegne luminose, odore di hot dog del chiosco all’angolo.
Con un panino caldo con wurstel, cipolla e senape sotto i denti, il caos della Trentottesima Strada le sembra più tollerabile. Sta per fermare un taxi automatico quando una voce la chiama.
– Eva! Vieni che ti do un passaggio. Sei stata favolosa.
– Grazie, Rick. Diamoci una mossa, ho bisogno di un drink.
– Allora ti porto al Jack Lee’s.
– Dove? – Poi Eva si ricorda. – Non ci penso nemmeno, non lo voglio vedere.
– Dai, Chris è qui solo per questa sera e vorrebbe incontrarti. Ci facciamo una cosa, lo saluti e filiamo da un’altra parte.
– Tu vuoi andare a piangere miseria, eh? – Ma Eva è troppo stanca per discutere. – OK, andiamo.
– Pilota automatico, al Jack Lee’s.
– Subito, Rick – risponde il sistema di bordo.
L’auto si muove lenta per Broadway. Eva guarda le luci che brillano di vita, persa nei suoi patemi. Solo un saluto e via, come no. Sarà una sofferenza.



I sampietrini sono freddi e umidi a contatto con la pelle. Giovanni ha una caviglia che urla di dolore, se si è slogata è la fine. Gli anfibi neri della TecnoCorp si avvicinano, le manette tintinnano nella quiete innaturale. Ora tocca a me.
Una mano guantata lo tira su di peso. È il suo momento. Giovanni dà una spallata all’agente, si divincola e schizza via senza voltarsi, la caviglia sembra reggere, incrocia le dita. Dietro di lui un concerto di fischietti e colpi di anfibi sui sampietrini.
Piazza di Spagna è gremita di manifestanti e uomini in nero. È una battaglia campale. Giovanni sente gli agenti alle calcagna, si tuffa nella baraonda, si fa spazio a gomitate e si infila in una via.
Ha il cuore a mille ma la paura lo spinge oltre il limite. Corre a perdifiato, lascia il tumulto alle sue spalle. Quando ha messo abbastanza strada tra sé e la zona calda, si rifugia in un androne buio. Fuori sente grida e passi di corsa, deve fare presto.
Ansima, la caviglia è a pezzi. Nell’oscurità butta via sciarpa e berretto, inforca degli occhiali a specchio. Alla cieca abbassa i baveri della giacca scoprendo il colletto candido di una camicia. Si ripulisce l’abito, si rassetta i capelli e il nodo alla cravatta. Per ora dovrà bastare.
Esce dall'androne con passo risoluto, sicuro che un controllo di routine dei filmati di sorveglianza del palazzo non assocerà l’uomo con la sciarpa che ci è entrato con l’aitante ed elegante quarantenne brizzolato che ne è uscito. O almeno ci spera.
Giovanni non rallenta finché non attraversa Via del Corso. Qui c'è gente che corre, urla, ma nessun segno di guerriglia o di cariche della TecnoCorp. In lontananza sente il ruggito dei blindati neri che schiacciano tutto, gli idranti. La rivolta trasformata in carneficina.
Basta tergiversare. Giovanni riparte ad andatura decisa ma regolare, supera la Colonna Traiana, lì da quasi duemila anni. Chissà quante ne ha viste, di scene come queste. Cambiano le epoche e gli uomini, non le regole. L’Imperatore Traiano era potente e temuto, guerreggiava, sottometteva e trionfava. Non come il fantoccio che si fa chiamare Presidente. Dov’è il potere, ora? Come si fa a sconfiggerlo?
In Piazza Venezia, Giovanni chiama un taxi automatico sotto gli occhi del balcone di Mussolini. I passanti della zona pedonale sono incollati ai loro iCom, con le immagini più cruente della manifestazione sotto gli occhi.
Il taxi prende velocità e Giovanni sente montare l’ansia. Non gli scappa un sorriso nemmeno quando vede, al posto del volante che non c’è, il disegno di una brillante spirale multicolore, il logo della Matsushita. Uno dei nostri, come quasi tutti.
Non sto fuggendo, sto andando verso il mio destino. Sono terrorizzato.
Fuori dal finestrino scorre uno spettacolo mozzafiato di monumenti, piazze e fontane, il Tevere sullo sfondo. C'era un motivo per le scelte che ho fatto, ma ora vorrei solo nascondermi nell’abbraccio della Città Eterna. Che ci facevo io in mezzo ai manifestanti? Credevo che rivivendo quello sciagurato giorno l’avrei rivista?
Giovanni accende la connessione dati del suo iCom, marca Gopple, con le due p che formano un paio di occhiali stilizzati. Controlla i messaggi, il volo è in orario. Un salto nei cieli, un altro cambio di pelle. Da uomo comune a canaglia e ritorno, in tre tappe. È troppo tardi per pentirsi.
Clicca su alcuni documenti che dovrebbe esaminare, con la spirale multicolore in copertina, ma bastano poche righe e perde la concentrazione. Così chiude tutto, calza il visore 3D e dal suo account Gopple riproduce il filmato che ha registrato.
La maggioranza dei manifestanti erano sotto i 30, le vittime maggiori della Grande Stagnazione. Il Sistema e i poteri forti, sono loro il nemico. Ma come li si batte?
Giovanni butta il visore iSee e si prende la testa tra le mani, confuso. Sul marciapiede passa una squadra di uomini della TecnoCorp in tenuta nera antisommossa. Ecco il triangolo che governa il mondo: gli automi intelligenti della Matsushita, gli onnipresenti gadget della Gopple e i manganelli degli uomini in nero.
Potrei rinunciare. Ma sento che devo farlo. Servirà a cambiare le cose? Giovanni rivede il volto della ragazza sfracellato dal manganello. Ma chi voglio ingannare, io sono un pezzo del Sistema che vorrei distruggere. A tenere in mano quel manganello, c'ero anch'io.



I vicoli puzzano di spazzatura fradicia, caldo viscido e miseria. Nel cuore della notte non piove più, pesanti gocce d'acqua cadono dai tetti di lamiera. La terra battuta si è convertita in un torrente di fango, Kira si inzacchera fino alle ginocchia, ma non le importa.
Schiva un anziano che deambula a caccia di rottami, avanzi di cibo, un colpo di fortuna. Malgrado l’ora, tra le casupole di cartongesso alcuni bambini grassi come maiali giocano a nascondino tra le ombre, ignari e felici, finché non arriverà l’età della ragione, della disperazione.
Sono stufa di giocare a nascondino con la vita. Sono matura abbastanza. Finché sei minorenne, ha detto Jordi. Non saprò sopportare ancora quattro mesi e sei giorni. Accelera il passo come se accelerasse il tempo, la voglia di svignarsela più forte della paura di restare sola al mondo.
Il labirinto di vicoli sfocia in uno slargo sghembo. Lo presidia un branco di sbandati, armeggiano con alcuni iCom e altri gingilli elettronici, il bottino dell’ultima scorribanda. Sono adolescenti grifagni con la vita della bidonville stampata in faccia. Devo starne alla larga, sono cani randagi che difendono il territorio.
Kira fa il punto. Nella sacca porta delle barrette FastNRG, un coltello da cucina, un iCom malconcio che funziona quando gli pare, l’unico paio di scarpe buone e un magrissimo rotolo di banconote. Indossa canottiera e shorts, gli unici suoi vestiti degni di questo nome.
Ma dove voglio andare, ha ragione mio padre, anche questa volta non uscirò dalla bidonville, figuriamoci arrivare fino alla Avenida Diagonal, al Prat o al porto.
– Ehi, cinesina, vieni a farci compagnia.
I ragazzi di strada sghignazzano arrapati, se la mangiano con gli occhi. Kira attraversa lo slargo decisa, punta verso una stradina tra le baracche.
– Non fare la scontrosa, cinesina, sei la più fica di tutta Barcellona. – Il branco si muove in gruppo a sbarrarle il passaggio. – Dai, Kira, che ci divertiamo insieme.
Lei allunga il passo, un ragazzo le si pianta davanti, barba incolta, capelli rasati e una treccina che gli pende dalla nuca. Avrà al massimo la sua stessa età.
– Non ho tempo da perdere con te, Bogdan.
– Come sei scontrosa oggi.
– Non scherzo, lèvati.
Kira lo scansa e prosegue decisa verso la mole della Torre Agbar, più che un grattacielo un assurdo siluro illuminato come un albero di Natale. Manca poco per uscire dalla bidonville, ce la posso fare. Bogdan le afferra il braccio nudo, il resto del branco le è addosso.
La rabbia accumulata di Kira si tramuta in furia. La mia fuga non può durare meno di cinque minuti per colpa di una banda di sfigati. Dà uno strattone selvaggio e Bogdan cade a terra, lo stupore sul volto.
Kira cammina senza voltarsi. Scoppia una risata di scherno all'indirizzo di Bogdan, i ragazzacci hanno trovato un'altra vittima per passare la serata.
Alle spalle di Kira risuona lo scalpiccio di passi pesanti. La Torre Agbar incombe su di lei e su tutta la bidonville. Kira accelera. I passi si fanno minacciosi.
Questa sera me ne andrò per sempre da qui. Se solo mi lascerete in pace.



In meno di mezz’ora Eva e Rick liquidano il traffico notturno di Manhattan. Il Jack Lee’s è stato rivoltato come un guanto per l’occasione: da ristorante di lusso a cocktail lounge per un party a inviti. Ovunque spicca lo stemma delle due p unite a formare degli occhiali, tanto per marcare il territorio Gopple.
Eva è appoggiata a una ringhiera, contempla i riflessi della notte nelle acque dell’East River con un bicchiere in mano. Da Brooklyn, la visuale notturna su Downtown è spettacolare.
– Vacci piano con quella roba.
– Rick, sei il mio manager o la mia balia? – Eva fa tintinnare il ghiaccio. – Niente come una Caipiroska al cocco per tirarsi su.
– Con la Russia collassata e la vodka di lusso a 5 dollari la bottiglia, la gente non beve altro. Hai assaggiato l’aragosta? È ottima.
– Hai visto Chris?
– Non mi pare. – Rick si guarda intorno. – Ma Kumar è il re della festa, cerca il capannello più grande e lo troverai giusto nel mezzo. Questa volta gli dobbiamo parlare della sponsorizzazione targata Gopple. La tua band sfonderebbe, credimi.
– Se c’è un buon progetto da sponsorizzare – dice una voce alle loro spalle – io non mi tiro mai indietro.
Eva si volta e riceve un abbraccio troppo effusivo per i suoi gusti.
– Sei bellissima. – Un viso abbronzato e rugoso con corti capelli grigi le stampa un bacio sulla guancia. – Sono felice che tu sia venuta. Rick, è un piacere rivederti.
Mister Kumar, grazie dell’invito, io volevo...
– Non ti dispiace se te la rubo, vero? – Kumar non aspetta la risposta, passa un braccio intorno alla vita di Eva e la porta via. – Mi pequeña Evita, vieni, andiamo a parlare in un posto più tranquillo.
Chris Kumar conduce Eva attraverso il salone pieno di invitati, fino a una saletta privata con accoglienti sofà di pelle. Eva non resiste, si adagia languida, sorseggia il drink reclinata come nella Roma antica.
– Musica?
– No, ti prego – Eva finge di tapparsi le orecchie – ho i timpani a pezzi.
– Com'è andato il concerto?
– Vuoi davvero fare conversazione? Non ne posso più, ecco come. Sono stufa di fare l’ologramma. Tutti quei fan invasati che osannano una finzione sul palco mentre io resto dietro le quinte.
– Posso offrirti delle alternative. La divisione Gopple Create potrebbe finanziare quel tuo progetto musicale.
– Questa discussione l'abbiamo già avuta, mi pare.
– Che c'è di male se tuo padre ti dà una mano?
– Sempre a organizzare la vita di tutti, eh, Chris?
– Deformazione professionale di uno che guida più di 200 mila dipendenti nel mondo.
– Perché mi hai fatto venire? – Eva si mette a sedere, con l’espressione dura. – Sai che della tua ennesima invenzione non me ne frega niente.
– È un peccato, l’iEmo 3 offre un’esperienza incredibile.
– Non mi dire.
– E va bene. – Chris si siede accanto a Eva, che d’istinto si irrigidisce. – Ero a New York per la raccolta di fondi per il patrocinio di orfani superdotati in India, sai quanto ci tengo alle mie origini. Ma non sono qui per la vista mozzafiato su Manhattan o la cucina del Jack Lee’s. Volevo vederti.
– Per cosa?
– Un padre non può sentire nostalgia per sua figlia?
– Ti è sfuggito che non porto neanche il tuo cognome?
– Non puoi incolparmi di una cosa che non ho fatto. È successo, e basta. Dopo tanti anni, possiamo solo accettarlo.
– Non ce la faccio a sentire una delle tue prediche su come affrontare la vita, il distacco Zen e tutto il resto. Non stasera.
– Hai ragione, stasera dobbiamo festeggiare. – Chris serve due drink da un carrello bar, ne offre uno a Eva. – Faremo storia, cambieremo il mondo.
La frase fa breccia nel muro di insensibilità di Eva. Chris è euforico, negli occhi il luccichio di un visionario, o un fanatico.
– Ho un appuntamento in Europa. – Lui sembra ansioso di raccontare. – È tutto misterioso, diavolo, una storia assurda e pericolosa.
– Pericolosa?
– Eva, non guardarmi così. Non sto più nella pelle. Le invenzioni, la fusione da cui è nata la Gopple, ho già fatto molto, per il progresso.
– Già, il progresso.
– Sì, Eva, il progresso. Non lo faccio per i soldi o per il potere. Possiamo migliorare le vite della gente attraverso la tecnologia, ci credo davvero. È qualcosa che porto dentro, lo sai, da dopo l'incidente.
– L’incidente. – I ricordi riaffiorano dolorosi nella memoria di Eva. – Fa male sentire quella parola.
– Sono passati quasi 15 anni.
– Per me è come se fosse ieri.
– Lo capisco, perdere una moglie non è come perdere una madre.
– Tu non puoi capire. – Eva va verso la porta della saletta, si sforza per controllare il turbamento. – Hai una nuova moglie, altri figli. Io come facevo a rifarmi una madre, eh? Non hai mai capito un cazzo di me.
Chris raggiunge Eva, con mano gentile ma ferma la costringe a voltarsi. Attraverso le vetrate le luci dei grattacieli di New York si riflettono sul piombo liquido dell’East River e sui loro volti stanchi.
– Sento che la mia vita è stata risparmiata per un motivo. – La voce di Chris si incrina, mossa dall'emozione. – Avrei dato qualsiasi cosa per morire su quella maledetta strada messicana al posto di Catalina. Ma la vita non funziona così. Era il suo karma, era il mio. E anche il tuo. Non ho potuto salvare lei, ma posso fare molto per rimediare, per dare un senso, un valore alla mia vita. – Lo squillo del suo iCom lo interrompe. – Sì? Domattina? No, no... va bene, non importa. Ci sarò.
– Chi era, la tua nuova moglie?
– Era il mio contatto, ci siamo. – Chris abbraccia Eva, poi la guarda negli occhi. – Quando torno dall'Europa parliamo sul serio di quel tuo progetto di rock band, venite tu e il tuo agente...
– Rick MacPerson.
– Venite tu e Rick e vi organizzo un incontro con Gopple Create. Ti meriti molto di più. – Una vibrazione dalla tasca lo interrompe, Chris guarda verso la strada. – Ecco la mia auto. Adiós, mi pequeña Evita.
Eva accetta il bacio in fronte, resta alla vetrata finché non lo vede salire sulla berlina, accompagnato da due bodyguard. Di fronte a lei sfavillano lo skyline di New York, Downtown, l’Empire State Building, il panorama ipnotico della città che non dorme mai. E io sono di nuovo sola.
Chris è un specialista ad abbandonarmi. Il genio della tecnologia, grande uomo d'affari, sognatore e naïf. Vuole cambiare il mondo e non è riuscito neanche a tirare su una figlia normale. Tutte stronzate.
Eva fruga nella borsa, manda giù due confetti multicolori, calza l’anello di metallo dell’iEmo sulla fronte e parte per un universo di energia positiva e oblio. La app le regala il paradiso terrestre, pieno di avatar bellissimi e sorridenti. È felicità allo stato puro.
Finalmente Eva si sente a casa.



Un macello, ecco cos'è.
Passi pesanti si trascinano sul selciato coperto di nevischio. Darko cerca frenetico un posto dove nascondersi, ma le facciate medievali di fredda pietra grigia gli sbarrano il cammino. Non ne uscirò vivo.
Sente l’aria frizzante del primo mattino che gli sferza il viso, riprendere fiato per schiarirsi le idee. Prova ad accelerare il passo, ma la gamba sinistra non risponde. Il dolore aumenta, fagocita tutto il corpo, come un’orda di barbari invasori che bivaccano sulle macerie.
Un lavoro chirurgico, così mi aveva ordinato. Qui di chirurgico c'è solo l'odore di sangue che mi porto addosso. Il suono di una sirena lo fa trasalire. Sono vicini, impossibile seminarli in questo stato. Darko si appoggia a un portone, ansimante, e si guarda intorno.
Non c'è nessuno in giro, nessun accenno di alba nonostante l'ora. A ogni angolo, le videocamere di sicurezza filmano tutto, per l’eternità. Ha il viso coperto da un passamontagna, per ora restare in incognito non è un problema, ma non può andarsene così. Che idiota a perdere la borsa con i travestimenti. Un disastro coi fiocchi.
Sì, come se avessi avuto scelta. Mi sparavano addosso, stava arrivando la polizia, sono fortunato ad essere ancora libero. E vivo. Almeno ho finito il lavoro.
Aggrappato al portone, Darko cerca di riprendere fiato. Non può uscire dal centro storico in questo stato, ferito, sporco di sangue, con i vestiti laceri per la lotta. Lasciare la Svezia è una chimera.
La tentazione di chiamare i suoi è fortissima. Dai, ragazzi, venite a salvarmi, portate il mio culo fuori da questo bordello. Ma non lo farò. Devi cavartela senza appoggi, questi erano gli ordini, se ti beccano non aspettarti aiuto da nessuno. Nessuno sa che cosa stai facendo lassù. Sei solo.
Darko riacquista la freddezza necessaria per vedere chiare le sue prossime mosse. Deve improvvisare, come ai vecchi tempi delle operazioni clandestine in Ucraina e in Russia, durante la Guerra Transbalcanica.
Passi di corsa, dietro l’angolo. Darko si acquatta, il nevischio gli sferza il viso. Ha riposato abbastanza. Odia prendere decisioni affrettate, cercando il colpo di fortuna. Ma le grida che sente sono vicine, non può andare per il sottile.
 Darko estrae il jammer, lo infila nella serratura elettronica, attiva la configurazione giusta e aspetta. È un gioco da ragazzi. Una telecamera ha ripreso tutto, ma se ne frega. Quello che gli interessa è non farsi beccare, penserà dopo a come uscirne pulito, un problema per volta.
Entra nel palazzo, scala i gradini in pietra a uno a uno, zoppicando, e trova uno zerbino asciutto al secondo piano. Un altro lavoretto con il jammer e la serratura salta. Darko attiva il visore notturno ed entra nell'appartamento, arma spianata, pronto a colpire.
Nel piccolo salone buio non c'è nessuno. Darko scruta il silenzio, avanza furtivo, perlustra l'appartamento, cucina, camere, bagni. Deserto. Sofferenza a ogni passo. Torna all’ingresso, richiude la porta con il jammer, rinfodera la pistola.
È esausto, la gamba sembra voler esplodere, una fitta di dolore al fianco sinistro lo sta massacrando. Quanto darei per buttarmi su questo divano e che vada tutto a farsi fottere, che mi becchino pure, non fa nessuna differenza.
Ma lo spirito guerriero che porta dentro non molla. Darko stringe i denti, si muove appoggiandosi ai muri, lasciando una scia di sangue per tutto l’appartamento.
Non perde la calma. In cucina prende del nastro adesivo americano e delle forbici. Fruga negli armadietti del bagno, metodico ed efficiente. Trova bende, disinfettante, cerotti.
Si siede sul bordo della vasca da bagno e si guarda il torace. Il giubbotto di pelle nera è squarciato in due punti, una sequenza di tagli slabbrati, uno-due. Ma che razza di cretino può andare in giro nel XXI secolo con un machete?
Dal taglio scorre un liquido marrone, gli inzuppa il giubbotto, i vestiti, le mani. Darko conosce bene quella miscela, calda come la vita, nera come la morte. Si mantiene freddo e distaccato, apre il giubbotto, si osserva l’addome e il costato, valuta i danni.
Dalla prima ferita pulsa sangue lucido e brillante, dalla seconda scorre olio denso e viscoso. Si mescolano sulla sua pelle, le sue due nature che litigano per vedere chi lo ammazzerà per primo. Gli anni di esperienza gli dicono che non sono ferite mortali. Se mai uscirà da quel casino, avrà bisogno di due specialisti per tornare in piena forma: un medico e un bioingegnere. Il dottor Wang saprà cosa fare.
Darko mette una benda alla ferita al costato, ferma l’emorragia. Con il nastro adesivo americano rattoppa il servomeccanismo che schizza olio da tutte le parti, perdendo pressione. Non prova dolore nel farlo, ma è lento, goffo, tutto il lato sinistro è insensibile, come se un pezzo di lui non ci fosse più. Cosa vera, del resto: non è l’unico frammento che gli manca.
Si alza, prova a flettere la gamba. È rigida come una sbarra d’acciaio. Dalla finestra del salone sbircia la strada. Luci di sirene, vociare concitato. È pieno di sbirri. Le cose si mettono male. Non è in condizione di scappare come un gatto saltando di tetto in tetto.
Controlla le munizioni che ha ancora. Senza la borsa che ha perso nella fuga, gli resta ben poco. Uscire e sparare a tutti è fuori discussione: è ferito e poco armato, non scommetterebbe un centesimo su di sé.
Mi cattureranno, mi rinchiuderanno da qualche parte e butteranno via la chiave. Una tragedia, per me e per tutta l’organizzazione.
Sono stato un dilettante, uno sprovveduto. Un pivello.


[continua] 

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