domenica 18 maggio 2014

"Madrid da morire": Capitolo 1





UNO


     – Arriva o no questo Barbaresco Gaja?
     – Subito.
     Corsi in cantina, rovistai nelle casse e tra le ragnatele scovai la reliquia. Ritornando scivolai sugli scalini di pietra e quasi mi spaccai il cranio. Subito immaginai duecento euro in liquido color rubino a innaffiare il pavimento.
     Passai davanti alla cucina sforzandomi di ignorare un disgustoso profumo di brasato. Entrai nella sala tutta velluti e stucchi barocchi, schivai due camerieri e afferrai un decanter. Una vibrazione nella tasca mi distrasse. Feci il giocoliere e detti un’occhiata: Viola. Guai. Mi presentai al tavolo trafelato e in affanno, con la bottiglia intatta per miracolo, e sfoggiai lo scarso aplomb di cui ero capace.
     – Faccia attenzione con quel vino. – Il cliente mi squadrò con disapprovazione. – Lei è nuovo del mestiere, vero?
     – Vent’anni di esperienza.
     – Non si direbbe. Visto, cara? Anche il servizio al Cambio non è più quello di una volta.
     – Te lo dicevo, caro, che dovevamo andare al golf della Mandria, almeno lì ti trattano come si deve.
     – Hai ragione, cara.
     – Le suggerisco di decantarlo, gioverà al bouquet. – Sbattei il Barbaresco sul tavolo. – Se non gradiscono, i signori sono liberi di togliere il disturbo quando meglio credono.
     Il tale mi fissò con ribrezzo. Mi passai una mano tra i capelli che avevano visto giorni migliori e gli regalai un’occhiataccia. Versai un dito di vino nella coppa.
     – Prego.
     Il cliente degustò e annuì senza alzare lo sguardo. Lo mandai a stendere col pensiero. Contemplai i riflessi del Barbaresco nel decanter. Come ero finito a lavorare lì? Quale cumulo di errori avevo commesso? Ero avvilito. L’ultima genialata mi aveva dato il colpo di grazia: otto cucuzze di debito e un simpatico esattore tutto muscoli che mi faceva il filo. Ricordavo bene la risposta: ero lì perché il Cambio pagava bene. Potevo ringraziare gli amici di Viola che mi avevano raccomandato con il maitre, altrimenti avrei già avuto un mignolo di meno. Certo che servire quel ben di dio senza sfiorarlo era una sofferenza. Che tortura. Non di solo aroma vive il sommelier.
     – Desidera altro, signore?
     Il tale mi respinse con un cenno, neanche gli avessi chiesto l’elemosina. E non era il peggior cliente che avessi avuto. Se il livello del servizio non era all’altezza della tradizione del locale, anche la clientela non era da meno. Ma non ero lì per la compagnia.
     – Massimo, corri al tavolo cinque. – Una mano mi tirò per il braccio. – E datti una mossa.
     La cortesia non era tra le qualità del maitre. Un tipo tagliato con l’accetta, rigido e falso alla vecchia usanza piemontese. Irritato, arrivai in un lampo al tavolo e mi sentii mancare. Di spalle sedeva una bionda con l’aria familiare. Troppo familiare. Era Lei? Non era possibile. Da dove era andata nessuno tornava mai.
     Un uomo al tavolo si voltò. – Allora, questa carta dei vini?
     La donna si ravviò i riccioli vaporosi. Il tavolo scoppiò in una risata e intravidi il suo mento pallido e affilato. Era Lei. Non riuscivo a respirare. Un fantasma.
     Michela.
     – Allora? – Un sussurro mi scosse. – Non ti pago per fare la bella statuina.
     Il maitre si beccò uno dei miei migliori sguardi assassini. Mi scappò, come un animale selvaggio che sbrana il domatore. Ecco tutto quel che rimaneva del Vecchio Max. Il maitre indietreggiò. Almeno facevo ancora impressione. Dei bei tempi non mi restava che questo.
     Mi avvicinai alla bionda. Trattenevo il fiato, in ansia. Le spalle scoperte disegnavano una linea sinuosa ed elegante. Quanto mi erano mancate. Provai l’impulso irresistibile di baciare quel collo di vaniglia. Potevo quasi toccarla. Il locale non esisteva più, camerieri e clienti svaniti nell’oblio. Il tempo si fermò. Di tutto l’universo non restava altro che la splendida pelle di Michela.
     La sfiorai con un dito.
     Si voltò.
     Sentii un vuoto esplodermi nel cuore.
     Lo spavento sul viso della donna lasciò il posto al furore. – Cosa vuole? Se ne vada.
     Non era Lei.
     Restai imbambolato, una bella statuina davvero. Vassoi e bottiglie mi sfrecciavano intorno. Ero spaesato, come se mi sforzassi di riconoscere un luogo alieno. Una vita non mia. Mi venne voglia di andarmene, mollare tutto e sparire, ficcare la testa sotto la sabbia e non tirarla fuori mai più. Il maitre non si disturbò neanche a riprendermi, gli bastò guardarmi e scuotere il capo, come per una causa persa.
     Mi ripresi. Correvo in cantina con in testa Michela quando suonò il cellulare. Merda. Sopra non potevo rispondere e sotto non c’era copertura. Mi fermai a metà scala. Era Viola. Non potevo ignorarla per la quarta volta. Sapeva che non dovevo rispondere eppure insisteva. I piedi mi facevano un male del diavolo: era inutile, non ero tagliato per quel lavoro.
     Schiacciai il verde. – Che c’è?
     – Max! Finalmente.
     – Sai che sto lavorando.
     – Sì, sì, volevo solo sapere a che ora ci vediamo.
     Mi immaginavo la scena: cenetta a lume di candela, coccole sul sofà e alto erotismo sotto il piumone. La prospettiva mi diede il voltastomaco.
     – Guarda, Viola, sono sfatto e siamo solo al pranzo.
     – Mi vuoi tirare il pacco di nuovo?
     – È che sono a pezzi. Davvero.
     – Massimo – il maitre fece capolino in cima alla scala – questa è l’ultima goccia.
     Viola ripartì all’attacco. – Sempre le solite scuse.
     – Senti Viola adesso non posso.
     – Te lo dico per l’ultima volta. – Il maitre era a un palmo da me. – Molla il telefono o qui dentro non entri più. È chiaro?
     – Sono stufa! Non t’azzardare a lasciarmi da sola anche stasera. Questa non te la faccio passare liscia.
     Strinsi il telefono fino a farmi male. Mi venne da scagliarlo in faccia al maitre e che andassero tutti in malora. Durò solo un istante. Fu troppo.
     – Fai quel che ti pare. Stammi bene, Max – e Viola riattaccò.
     – Bene Massimo, l’hai voluta tu. – Il maitre cacciò fuori dalla tasca una manciata di banconote. – Con queste sei sistemato, è più di quel che ti spetta. Con me hai chiuso. Sparisci immediatamente, e non t’azzardare a rimettere piede al Cambio.
     Restai solo nella penombra della cantina. Silenzio. Mi allentai il farfallino, ormai non occorreva più. Perché era così difficile? Sfogai la rabbia repressa con una manata contro il muro, che mi valse una fitta di dolore al palmo e un’altra dose di frustrazione. Perché non mi lasciavano in pace? Non capivano che avevo bisogno del mio spazio? Beh, in quella piacevole mattina di giovedì avevo tutto lo spazio che volevo.


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