domenica 18 maggio 2014

"Madrid da morire": Prologo


Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticare d'esser stati presi per il sedere
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte
porteran sul viso l'ombra di un sorriso tra le braccia della morte.

Fabrizio De André, La città vecchia


Non importa quanto sia stato duro il tuo passato,
puoi sempre ricominciare da capo.

Buddha



PROLOGO





     Eravamo fottuti. Dall’alto della collina fissavo allibito la valle sotto di me: sulla scia della Mercedes di Ángel due luci blu correvano nella notte. Flash azzurri a bruciarmi gli occhi e i sogni di felicità. Due auto della polizia.
     Le due auto superarono Miraflores de la Sierra a razzo. La Mercedes correva veloce, la polizia non mollava. Ángel era un gran pilota. Poteva non bastare. Doveva bastare, la mia Michela era con lui. Il nostro paradiso era nelle mani di Ángel.
     La disperazione mi agguantò l’anima. Lottai per mantenere la calma aggrappandomi alle promesse di Michela:
     – Dopo questo ce ne andiamo io e te, ai tropici, per sempre. Non ci torno a fare la cameriera, mai più. Ce la spasseremo, Max, vedrai.
     Sentii il ruggito del motore. La Mercedes risaliva i tornanti come un drago infuriato. Ce la potevano fare. Era la nostra unica speranza. Michela e Max. Assaporai il nostro paradiso: palme e piña colada, grandi abbuffate e grandi scopate.
     – Io e te, per sempre.
     Ma il sogno svanì. Le sirene non mollavano. Eravamo fottuti.


     Le auto imboccarono il rettilineo sotto di me. Cosa ero venuto a fare? Promettevano un lavoro pulito, soldi facili. Ma non erano mai facili. Un lavoro da dilettanti, ecco cos’era. Il motore ruggì più forte, le gomme fischiarono. Corsi giù per vedere meglio. Mi passarono vicinissimi. La luce dei lampioni brillò sulla loro pelle: il volto di Ángel era una maschera diabolica, le mani di Michela erano bianche come l’aldilà.
     – Io e te, per sempre.
     Le volanti si avvicinarono. Li avrebbero beccati? Un vuoto di disperazione mi crebbe dentro. Con Michela al fresco la mia vita non valeva niente.
     Il rettilineo finiva con un tornante affacciato sulla valle. Filavano veloci. Troppo veloci. Trattenni il fiato, la morte nel cuore. Ángel inchiodò con uno stridio che svegliò tutta Madrid. La Mercedes diede un colpo di coda, e un altro, e un altro ancora. Le volanti gli erano addosso. Poi i pini li inghiottirono.
     Mi precipitai giù per la collina. I ginepri mi graffiarono dappertutto. Mi cadde la pistola chissà dove. Me ne fregai, dovevo vedere. Ángel sbucò oltre i pini a tavoletta, le volanti incollate. I motori ululavano nella notte. La Mercedes si impuntò. I fari illuminarono un parapetto di pietra, tra l’asfalto e il nulla. Io non respiravo. Ángel sbandò, si rimise in carreggiata. Giurai di non rubare mai più. Ma era tardi.
     La Mercedes investì il parapetto.
     Le pietre esplosero.
     Ángel e Michela spiccarono il volo.
     Tutto fu silenzio, un silenzio eterno, definitivo. Intollerabile. Nel tempo di un respiro il nostro sogno di paradiso si trasformò in un incubo. Mi travolse il terrore assoluto, la paura di perdere tutto. Di perdere Lei.
     Un boato illuminò la valle.
     Mi buttai a perdifiato per il sentiero, giù per la pineta, rischiando l’osso del collo. Come se servisse. Mi fermai di fronte all’inferno. Il mio cuore si rifiutò di credere a quello che vidi. Le fiamme divoravano i pini. Il paradiso di Max e Michela ardeva sul rogo.
     Corsi ancora, ignorando le lingue di fuoco, incapace di pensare. Non poteva finire così. Amore eterno, questa era la nostra promessa. Tra le lamiere intravidi due sagome brune. Forme umane da incubo. Mi volli tuffare nel fuoco, nulla aveva più senso. Stare insieme a Michela, in paradiso o all’inferno non faceva differenza. Non feci in tempo.
     Il bosco esplose.
     Mi riebbi. Ero steso a terra. Mi girava tutto. Mi rimisi in piedi e caddi. Più volte. La puzza di fumo e carne bruciata mi entrò nell’anima. Non l’avrei dimenticata mai.
     Il fuoco non urlava più. Strisciai verso Michela. Contava solo Michela. Nell’ammasso di metallo incenerito la vidi. Quello che restava di Lei. Il giubbotto di cuoio incartapecorito. Il medaglione d’oro al collo. Una testa di carbone.
     Mi trascinai ancora. Una mano sconosciuta mi afferrò e mi trattenne. Delle grida mi investirono. Non capii. Non aveva importanza.
     Il paradiso era cenere.
     I nostri sogni erano cenere.
     La mia vita era cenere.
     Nel volto vuoto di Michela vidi l’espressione serena di chi dorme con la coscienza a posto. A fare la cameriera non ci sarebbe tornata mai più.


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